Nelle ultime settimane si è fatta sentire la protesta di una parte del mondo dei media contro quella che viene definita “legge bavaglio”. Comunicati delle organizzazioni di categoria letti nei telegiornali, prese di posizione trasversali dei principali quotidiani, note di protesta degli organi dell’ordine dei giornalisti, iniziative di piazza in diverse città. Negli ultimi due anni abbiamo visto con una certa frequenza levarsi dal mondo della stampa voci contro i provvedimenti dei governi che si sono succeduti. Per la prima volta però si assiste ad una presa di posizione così larga contro un provvedimento. In questo caso nel mirino delle proteste l’emendamento alla legge di delegazione europea firmato dal deputato Enrico Costa di Azione, che vieta ai giornalisti la pubblicazione letterale anche per estratto delle ordinanze di custodia cautelare, non più segrete dal 2016. L’emendamento è stato approvato lo scorso 19 dicembre alla Camera, con il voto favorevole, oltre che della maggioranza, anche di Azione e Italia Viva, e il Senato dovrebbe decidere in merito proprio questa settimana.
Può darsi che quando queste righe saranno lette la faccenda sia già andata molto avanti, per cui è bene limitarsi a fare delle considerazioni generali. Comunque vada questa storia, senza entrare in aspetti tecnici, è chiaro che ci si trova di fronte a un ennesimo atto autoritario, di controllo dell’informazione da parte del potere politico, e in questo senso le voci che criticano la classe politica di volersi autotutelare con questi provvedimenti non sbagliano. Come si dice però, hanno scoperto l’acqua calda, la classe politica cerca sempre di tutelare i propri privilegi. È chiaro che in una fase segnata dalla guerra e dalla soluzione autoritaria e militare alle crisi, queste forme di controllo si rafforzano, perché l’esecutivo abbia non solo maggiore potere ma anche la strada libera da intralci.
Una delle illusioni dell’ideologia del regime democratico è quella di ritenere i media uno strumento di controllo sul potere politico, quando sono in realtà fabbriche del consenso. Questa definizione già diffusa da qualche decennio è generalmente valida anche oggi pur essendo profondamente mutato il sistema mediatico. In questo senso anche la pubblicazione di intercettazioni, ordinanze giudiziarie, e via dicendo, che sta molto a cuore al sistema mediatico italiano, è parte del meccanismo di consenso. Infatti anche quando i media nella storia recente hanno dato forza e argomenti a movimenti di protesta contro il governo, il ruolo dei media è sempre stato funzionale allo scontro tra gruppi di potere, alla rigenerazione della classe politica, alla riabilitazione delle istituzioni macchiate da questa o da quella mela marcia, non certo al servizio di oppressi e sfruttati. Si tratta quindi di una macchina solo funzionale alla riproduzione del sistema di dominio vigente.
Se da una parte c’è chi casca sempre in piedi in questo gioco, in un eterna riverniciatura del potere, c’è invece chi si trova sempre schiacciato dal potere mediatico e giudiziario, indipendentemente da chi governi o da quale legge bavaglio sia in quel momento vigente. Sono quex compagnx i cui nomi vengono pubblicati sempre sui giornali, insieme ad altri dati personali, quando sono indagati per reati relativi a manifestazioni o azioni politiche, sono lavoratorx, ambientalistx e soggettività di cui i media non parlano mai se non quando c’è da criminalizzare qualche protesta che esce dalla ritualità, sono coloro che sono deumanizzati perché senza documenti o perché chiusi dietro a delle sbarre, sono coloro che senza lavoro, senza figli, senza carriera, senza futuro, sono sempre sottoposti al giudizio di qualche esperto, sono coloro che sono sempre ridotti al silenzio, la cui voce, anche quando viene riportata, lo è spesso solo in modo frammentato e stereotipato e comunque sempre sovrastata dall’assordante “altra campana”.
Per questi, per noi, la pubblicazione di qualche intercettazione, o di qualche riga di ordinanza, non cambia certo le condizioni di vita e di lavoro. Lo stesso vale per chi dal governo sostiene di difendere la “presunzione di innocenza”. In questo caso si parla sempre dell’innocenza di qualche onorevole, cavaliere e manager, che non può vedere la propria reputazione infangata, non certo di coloro che questo ordinamento sociale già schiaccia nel fango tutti i giorni.
Se si tratta solo di uno scontro tra poteri perché dovremmo interessarcene allora? Perché la stretta sui media, l’accentramento dell’informazione e il controllo su ciò che viene pubblicato è una effettiva misura autoritaria del governo, che oggi interviene limitando la cronaca giudiziaria, ma che intende imporre dei meccanismi, in parte già rodati, che vogliono sottoporre a controllo ulteriore l’informazione in generale. Pensiamo al sistema della “certificazione” della notizia, che esponenti del governo vorrebbero formalizzare, o al Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della difesa. Pensiamo alla repressione della cosiddetta “stampa clandestina”, tornata recentemente di moda. Il sostegno militare e finanziario all’Ucraina prima e il supporto alla guerra condotta da Israele poi, sono stati, in modo diverso, accompagnati da una corale campagna mediatica. Anche se con il tempo sono emerse le diverse posizioni e le voci dissonanti, si è assistito nelle prime fasi a un trasversale e martellante sostegno alla politica del governo. Un’ulteriore stretta autoritaria sull’informazione non farebbe quindi che limitare la libertà di espressione su carta e a livello digitale, e rendere ancora più organico il rapporto tra media e potere politico, specie nel sostegno alle politiche trasversali agli schieramenti condotte nel nome dell’interesse nazionale, dalle guerre alla restrizione delle libertà e dei diritti sociali.
Tutti i regimi autoritari nella loro costruzione passano attraverso l’uniformazione dei media. È importante rilevare che in un generale contesto di crisi e di soluzione autoritaria e militare da parte dello stato siamo di fronte a un passaggio che va in questa direzione. Nella lotta per la libertà bisogna saper cogliere questi segnali, anche per cercare di adeguare la propria iniziativa. È difficile dire quanto procederà il governo in questa direzione, se gli basterà tirare un po’ il morso per far prendere alle cose la giusta direzione. O se saranno imposte forme di controllo più complessive.
Certo a leggere certe dichiarazioni contro l’emendamento Costa viene da dire che qualcuno a forza di bavagli si è fatto bendare pure gli occhi e le orecchie. Come se vivessimo in una società libera in cui i media vengono senza motivo censurati. Sappiamo bene che le relazioni di potere che governano la società, entrate in crisi da tempo, hanno stretto molto i margini della “agibilità democratica”. Alcuni esempi sono dati dai provvedimenti più recenti. Con il pacchetto sicurezza varato dal governo in autunno si istituisce il reato di rivolta carceraria, che sarà effettivo, eloquentemente, anche per i CPR. Si tratta del nuovo art. 415-bis del codice penale che istituisce quello che è stato definito da Antigone “il reato di lesa maestà carceraria” punendo fino a 8 anni “Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta”. Viene inoltre esteso l’articolo 415 del codice penale, che punisce l’istigazione alla disobbedienza alle leggi di ordine pubblico, arrivando a punire chi con scritti diretti ai detenuti istiga alla rivolta. Questi non sono dei bavagli? Allo stesso modo le leggi antisciopero, contro i “rave”, contro il “vandalismo”, contro le occupazioni, i picchetti e i blocchi stradali, che limitano la libertà di manifestare, sono anch’esse dei bavagli.
Chi vuole opporsi davvero alla stretta autoritaria del governo non potrà quindi limitarsi al proprio orticello, l’unica lotta possibile è quella contro tutti i bavagli e contro tutte le catene.
Dario Antonelli